Nell'arte di Gino Gorza, una pittura acentrata come il corpo senza organi del filosofo, i tratti, "figure d'aria sospese al di sopra di un suolo miracoloso", si danno come schema per un'immagine senza somiglianze, fraseggio, sillabazione metrica, frammentata partitura per la recitazione di sé, ornamento non subordinato a funzione alcuna, fisionomie residuali di un gesto, possibili morfologie dell'articolazione more geometrico di un pensiero, evocazioni di morgane dalle profondità luminose del nero, canto d'apparenze spegnentesi nell'evidenza improbabile di un bianco che è iperbolico segnale di un'epica dell'inidentico e della fuga. Dentro a questo i segni: araldi, oracoli e messaggeri del vuoto.
La nozione stessa di disegno, vuoi per il trasalimento di una o più superfici, vuoi per un transcendimento dall'interno delle leggi del moto locale condotte ad estenuazione ed esaurimento, vuoi per il venire in essere di un incontro alieno ad ogni programma, perde quelle caratteristiche che in qualche modo ne fonderebbero la definizione in quanto genere: non è più momento preparatorio o progettuale, essenza genetica e strutturale che trova nella pittura il suo compimento esecutivo o viceversa ancillare calligrafismo; eventi autonomi di scrittura, chirografie-manufatti che hanno in qualche manoscritto sconosciuto il loro prototipo, incidenti morfogenetici, mappature di spostamenti fisici e mentali, il tratto ed il disegno sono qui fine a sé stessi, ma in tale identità - continuamente revocata e tale finalità appartengono al dominio dell'ignoto, come gli oscuri transiti e le grammatiche fantasmna che rivelano. Nella topologia acentrata del corpo senza organi di cui si diceva, non si possono stabilire, né per il disegno, né per il tratto, né per alcunché, rapporti esplicativi in base ad un principio di lateraliltà; né, in un regime di gerarchie fluttuanti o dissolte e anarchie incoronate riferirsi ad una secondarietà. Natura e carattere del tratto e del disegno sono quelli del precipitato, dell'impromptus, in cui l'istantaneità delle apparizioni - chimeriche, sfingee, angeliche, controfigure mitografiche della danza dell'anima alata o della sua fissità, trascina con sé l'appercezione della propria arbitrarietà di segno. Semmai il disegno è deposito di memorie ("o mente che scrivesti ciò ch'io vidi"), ma si tratta di un'idea di estensibilità illimitata; dall'ottica ricostruisce fondamentali indizi sull'illusorietà di nome, forma, sostanza, tempo e luogo, circoscrivendoli. Né manca di facoltà letee, obliose e smemoranti; di queste si presta ad essere docile veicolo ed attivo strumento, compiendone l'estremo esercizio: dimenticare tutto.