31/03/09

roberto cavallera / riccardo cavallo: tag (part.)


un inno agli dei esteriori, almeno quelli: sfila un burroughs da dietro si gonfia bello sta qui, come a finire l'opera, la natura lo dà in scritture in carceri in costantinopoli decolorate, più giù andromede incatenate ai venti, alle onde, ancora più giù il nascondimento mobile d'un achille fintissimo, momentaneamente integro. per questo non si sta mai contemporanei a quel che c'è, a proposito, che c'è?















27/03/09

roberto cavallera / riccardo cavallo: tag (part.)


alcuni consigli di psiche per l’attesa. staccare la dicitura del libro, esaurire la sintassi, sbiadire le figure, vergare un dramma nuovo, migrare in falli in tumide segrete materne (adesso s'accentuano, insistono per gradi, insistono «questa sorte si rovescia lo stesso le partite finite il tripudio, concluse -il / “le il labello sulle labbra un piacere uno metodologico stato l’amore un altro, ma terreno, lo disegna lei, con aria un po' maligna, sempre molta la schiuma, vecchioni a dozzine scrutano susanne senza capire, capire come fare, mediocri, mediocri, presto a consultare l’elenco sotto la voce: vialis















26/03/09

roberto cavallera / riccardo cavallo: tag (part.)



di colori scorsi su un dio pieno messo per lungo, per dritto, pittato a partire da' piedi" sembrato vero per via delle circostanze. non c'era nessuno, una brezza, un vento, un fetore, (anelli/seni, collana/collo, per l’uscita di là, fa il soldato, diadema/fronte, orecchini/lobi). "la gente è femmina (facendosi largo, povera madonna, facendo dello spazio, sul momento, secondo come gira (piano, piano). un movimento nel primo atto, una calca, un trionfo. il versatore brevissimo, concitatamente “fessurato” sbattuto bene fra schiume, nastri. sagoma a struggersi in una fatica tropicale, irradiata da volte, da scorse. una pagina sempre la stessa spiegata a persone, da lì tirato fuori un uno calmo, si staccano gambe che insistono camminano. scambiata per forma per teologia una morte uno spreco. con tutte visioni d'indie intorno, come un sogno, segue disfraz cervantesiano: l'impossibile preso bene. non c’è più il nell’ombra un rapporto abituale ma stacco netto tra grado e soggetto. dentro si vede una da dentro quell'aria violetta















25/03/09

roberto cavallera / riccardo cavallo: tag (part.)



d'una pittura, improvvisa, enorme, ordita in frasi la frase scorsa al collo, tutti gli sguardi dentro. quella: non ha padre, molte le madri, molti i quadri. sua la brevità trascorsa, andando solleva abbastanza, solleva il tempo, così, con una mano, vive nell’autoreperirsi (muore vergine tiene una verga pulisce le labbra il latte si guarda le cosce (dopo la resa la s'invita a giacere, più in là. munita di fondata sua natura. fra torino e gerusalemme una capatina. dire e ridire: la si vedesse. la treccia oscillava, presa tra un cristare e l'altro (l'altra guardava, guardava tutto, istruita a modo). dolce, amara, nel tao- non a dulcie- si trovano s'inseguono sulla tela
















06/03/09

Plasticost: Canzone Dada



I

la canzone di un dadaista
che aveva dada nel cuore
faticava troppo il suo motore
che aveva dada nel cuore

l'ascensore portava un re
pesante fragile autonomo
tagliò il suo grande braccio destro
lo mandò al papa a roma

per questo
l'ascensore
non aveva più dada nel cuore

mangiate cioccolato
lavate il vostro cervello
dada
dada
bevete acqua


II

la canzone di un dadaista
che non era né allegro né triste
e che amava una biciclista
che non era né allegra né triste
ma il marito a capodanno
vide tutto e in una crisi
mandò al vaticano
i loro due corpi en trois valises

né amante
né ciclista
non erano più allegri o tristi

mangiate buoni cervelli
lavate il vostro soldato
dada
dada
bevete acqua


III

la canzone di un biciclista
che era dada di cuore
che era dunque dadaista
come tutti i dada di cuore

un serpente portava i guanti
chiuse presto la valvola
mise dei guanti di pelle di serpente
venne ad abbracciare il papa

è toccante
ventre in fiore
non aveva più dada nel cuore

bevete latte d'uccello
lavate le voste cioccolate
dada
dada
mangiate vitello

---


I

la chanson d'un dadaïste
qui avait dada au coeur
fatiguait trop son moteur
qui avait dada au coeur

l'ascenseur portait un roi
lourd fragile autonome
il coupa son grand bras droit
l'envoya au pape à rome

c'est pourquoi
l'ascenseur
n'avait plus dada au coeur

mangez du chocolat
lavez votre cerveau
dada
dada
buvez de l'eau

II

la chanson d'un dadaïste
qui n'était ni gai ni triste
et aimait une bicycliste
qui n'était ni gaie ni triste
mais l'époux le jour de l'an
savait tout et dans une crise
envoya au vatican
leurs deux corps en trois valises

ni amant
ni cycliste
n'étaient plus ni gais ni tristes

mangez de bons cerveaux
lavez votre soldat
dada
dada
buvez de l'eau

III

la chanson d'un bicycliste
qui était dada de coeur
qui était donc dadaïste
comme tous les dadas de coeur

un serpent portait des gants
il ferma vite la soupape
mit des gants en peau d'serpent
et vient embrasser le pape

c'est touchant
ventre en fleur
n'avait plus dada au coeur

buvez du lait d'oiseaux
lavez vos chocolats
dada
dada
mangez du veau




testo: "Chanson dada" di Tristan Tzara (1923) musica e adattamento del testo originale: Plasticost, dal mini lp "Plasticost" (1983)

04/03/09

le masque : colloquio





[…]
Una camera muta
e un letto profondo: lontano
la fiamma d'un vespro sanguigno
che splenda tra i cento comignoli
d'una città sconosciuta:
giacere in quel letto profondo;
udir con un senso inumano
d'angoscia il confuso lontano
eterno fragore del mondo:
sentire che per riposare
un sonno profondo non basta,
ma occorre una pace piú vasta;
sentire che tutto scompare
per sempre, che il sogno dilegua
per sempre, che tutto è fuggito
per sempre, che tutto è finito;
sentire vicina la tregua;
compiere il gesto improvviso:
il sangue che sfugge dal viso,
il senso indicibile, ignoto,
di precipitare nel vuoto,
di precipitare per sempre,
di divenir preda del niente...
un senso di gelo, fugace,
poi nulla. La morte. La pace.

Giacere in quel letto profondo,
già morto: sul volto, il suggello
della Verità spaventosa,
della Verità che si sposa
con l'uomo ch'è uscito dal mondo
e agguaglia il deforme col bello,
e agguaglia l'ignaro e il saccente
nel placido regno del niente:
giacere in quel letto profondo
piú immobile ancora di quando
si dorme: dell'unica buona
immobilità che traspira
dal volto di chi non respira,
dal corpo di chi s'abbandona;
il drappo che va disegnando
piú profondamente le forme
del rigido corpo che dorme
per sempre: poi ecco apparire
la prima dissoluzione
che sforma e dev'essere come
se si continuasse a morire.

Giacere in un letto profondo,
già morto: ecco il solo momento
di vero riposo nel mondo!
Piú tardi la terra ci afferra
e penetra e sbriciola in polvere
e volge in sé stessa ed evolve
e dissipa in preda del vento:
ma il letto sul quale si muore
concede per quarantott'ore
la pace assoluta, infinita.
Nessuna forma di vita
si svolge in quel tempo dal fondo
dell'uomo mutatosi in cosa;
quella materia riposa;
non vive, non vede, non sente:
sfasciandosi gradatamente,
rinunzia all'enorme fatica
di dover essere unita.
Natura, o burattinaia,
come raduni i tuoi fili
a tempo, perché l'uno appaia
e l'altro scompaia! Rigiri
i fili che agli esseri umani
fan muovere i piedi e le mani
e torcere gli occhi e la bocca:
quindi, infallibile, appena
è tempo, il fantoccio a cui tocca
scompare per sempre di scena.
Tarderà molto a finire
questa ridicola farsa?
Io sento che fo da comparsa
e che non ho niente da dire.

A che imaginarmi già estinto?
Parlare senza morire
di questo piacere vuol dire
non esserne bene convinto.
O morte, la nostra miseria
è grande: la nostra materia
che soffre ed invoca l'oblío,
gridando pur sempre: - Non voglio
morire! - s'abbarbica all'io
cosí disperatamente,
come il mollusco aderente
con tutte le forze allo scoglio:
l'io per ciascuna persona
è come un'amante noiosa
che stanca sopra ogni cosa,
ma che tuttavia non si dona;
l'amante che piú non si varia,
compagna in piaceri e malanni
e che, con l'andare degli anni,
diventa vieppiú necessaria;
l'amante un poco volgare
che ha verso di noi mille cure
e che spesse volte neppure
ci si accorge di sopportare.


Testo di Carlo Vallini tratto da "La morte" in "Il giorno" (1907)
La trascrizione dell'opera è disponibile sul sito http://www.adinicola.it/ungiorno.pdf

Musica e adattamento del testo di Le Masque: 
lemasque.it / myspace.com/lemasqueilsiggustavocoscienza

01/03/09