20/07/15

Ditlinde Persefone Mendez



nere sagome di corvi fugaci nel punto più fosco del racconto, la fumosità del mondo esterno tra pillole di speranza e visite notturne, comari abbacchiate tra suore e medici o altri esempi di fermezza, lettere che sono ossigeno in un lazzaretto senza anestetici, l’aria pungente una forma di malvagità, parentesi di raccoglimento e gioia o pastiglie di laudano, nella rada campeggiano riflessioni amare e scomode, forzute storie avvincenti, riavutisi dall’emozione si guardarono intorno incuriositi o elettrizzati da tre carte fatali, tarocchi con cinghiale in selva o serpi crestate, donne di malaffare tra fango e canne, l’arrivo di un calesse, una forte detonazione strascico di memorie tenaci e sempre ricorrenti, vous avez oublié, una pila di spartiti tra raso fulvo, rame e soavi note infiacchite da attesi vaneggiamenti, bollettini di guerra annunciano la riconquista di bengasi accompagnata dal commento dio sia lodato, lumi a petrolio sulle finestre, sotto l’aerorimessa il feretro parlò al cuore di tutti, rivivevano la confusione dei preparativi, abulici contribuivano al lavorio o si accasciavano nel cinema all’aperto, ritagli di vite anteriori, cuoio biondo, elleboro, colonne di musici celesti sfioravano il reticolato tra aria e polvere, ruvidi sussulti e una scia rossastra a deporre l’ira, una cockney alticcia sicura d’entrare in una casa da tè tra dipinti sacri e caffettiere napoletane, aria cupa e gruppi armati all’esaltazione della croce, frattanto la reazionaria non si distendeva affatto sconfortata dalle altrui vite del michelaccio, orribile destino tra camere arredate con gusto e fiducia nel futuro, quella sera non erano andati al cinematografo, insolite e magnifiche sensazioni al risveglio, scene d’amore, guerra e violenza, senso di sfinimento, neanche l’ombra di un albero, un campo di aviazione tra sabbia e polvere, maria stuarda era già stata ghigliottinata e la dea triforme attorceva auree reti, parole da sottolineare con rigacce in alloggi di fortuna dove rifiorire o impazzire, ecco le sfere avventar lampi, i più imbestialiti riscontravano aspetti positivi o teorizzavano immobilismi, paesaggio meno pittoresco, i premurosi si prodigano e i ceffi da forca si assiepano ma la voce narrante dice di sentirsi l’animo più leggero se pensa all’ansia che sembrava sciogliersi in dense chiose mentre le vibrazioni dell’euforia sferzano le membra








15/07/15

Ditlinde Persefone Mendez



l’iperbolico elenco segnalava inaspettate reti prodighe di adamantine meraviglie, nel viaggio notturno poche notizie da fonti sommarie, nomi precipitati nell’oblio del furor creativo tra vetri, alambicchi e un fondo lucente in foglia d’oro, nel groviglio di morbi contagiosi e avvelenamenti un cerchio che compare più volte tra risonanti telai e volumi fittamente annotati, tenebrae factae sunt, allontanandosi si ritirò nel campo fluttuante dove un oscuro peso modifica la sostanza dei corpi nel sogno di librarsi da cupe vele e inseguire il moto perpetuo di immortali dipinti, più che linee di forza mobilità di piani e angolazioni tra automi e giardini d’ombre, dalle acrobazie di un organo barocco note maestose o apocalittiche che soffiano sulla brace, i suoni parte dell’universo abbattuto dallo stupore, colore denso e vibrante di sguardi liquidi verso nubi squarciate che lasciavano trasparire l’azzurro delle distanze, la benda sugli occhi da un centro ardente, passanti spaventati da tumultuosi futuri incerti e mescolanze culturali in un luogo non pronto, lo sguardo del condannato a morte da immaginari conquistatori di una spiantata torre eburnea, circola l’aria e si apre lo spazio, nel connubio di frusti tragitti la narrativa perde rilievo, meteore in una dissestata cronologia di esseri divorati da infausti baloccamenti o liquefatti in deliranti gazzarre, assetati di sperimentazioni estreme distribuivano fiabe composte e illustrate di loro mano su incanti rotti e altre mal riuscite metafore, non ti rallegra lo spettacolo dell’altrui rovina, un mattino atterra e non riconosce quella sala invasa da carichi e volti mai visti strepitanti, pietre e malta per qualcosa di grandiosamente inutile tra insegnamenti di santi sociali e ribollenti disquisizioni, un’immobile armata farneticante stremata da filtri, vasi, teste di marmo e scaffali dorati








02/07/15

Inno al Nilo




Salute a te, o Hapy, che esci da questa terra e vieni per dare la vita all’Egitto. Avvolto per natura, tenebre in pieno giorno, eppure venerato da coloro che ti seguono, che da oscuri abissi e caverne giungi a inondare i campi creati dal disco solare di Ra per dare la vita a tutti gli armenti, che disseti il deserto, la montagna [necropoli] lontano dall’acqua, poiché è rugiada ciò che lascia cadere il cielo. Amico di Gabu dio della terra, oblatore di Napri deità del grano, tu fai prosperare le arti del creatore dell’uovo Ptah che al tornio forma il cosmo.

Signore dei pesci, che conduci moltitudini di uccelli selvatici, durante la piena non ve ne sono nella valle inondata che si posino sulle tue colture, Tu generi le messi di grano, porti l’orzo, assicurando vita eterna ai templi, ma se in quella stagione non ti manifesti, allora manca il respiro a tutto ciò che esiste.

Se tu sei torpido, ognuno langue e diventa povero e così, mentre si riducono i pani in offerta agli dei, milioni di individui periscono tra gli uomini. La terra intera ne è sconvolta, il grande e il piccolo sono poveri perché come tu inizi a salire gli uomini si confondono in un’unica rovina. Quando il dio della cataratta Khnumu ti ha creato sul suo tornio, tu ti levi brillando e tutta la terra è in allegrezza, tutti coloro provvisti di ventre sono in gran gioia, ogni vertebra è scossa dal moto del ridere e i denti frantumano il nutrimento.

Fausto il tuo arrivo, signore dell’autorità che rinnova i profumi, dispensatore di alimenti, fertile creatore di ogni beneficio, tu che produci erbaggi per gli armenti e offri sacrifici a tutti gli dei. Anche quando sei ancora nel mondo sotterraneo della Duat, cielo e terra ti sostengono, essendo tu il conquistatore delle due terre che colma i depositi dell’alto e del basso Egitto, ne fa larghi i granai, provvede beni a chi ne è sprovvisto.

E l’incenso divino è a tua disposizione quando, come un dono, arrivi nelle due terre dove, con la tua forza per ogni dio dei trapassati, del cielo e della terra e il re che risiede nella città di Taitit-taoni, per ognuno fai crescere alberi e tutto ciò che si desidera non può mancare, fai apparire la nave a remi veicolo di Ra che non si costruisce con la pietra, senza essere percepito prendi possesso delle colline con il tuo fluire incessante.

Tu che senza ostacoli percorri le alture e agisci senza esser diretto, quando a gran voce la piena di acqua datrice di vita è annunciata, tutti i cuori si rallegrano, ti scortano drappelli di giovani e bambini e si parla del tuo potere come se tu fossi un sovrano con leggi salde che soltanto si manifesta a mezzogiorno e al nord perché il pianto di tutti gli occhi sia bevuto da te e perché tu procuri profusione di beni e abbondanza alle tavole. A te omaggio regale, ti insedi nel tuo tempo e dispensi più della tua bellezza, ognuno beve la tua acqua.

Non c’è alcuno che viva se non con te, senza di te, hai portato il dio Sobek guida e compagno del sole mattutino che Neith partorisce. L’Enneade degli dei che è in te è splendida, si arricchisce dei doni di acque dolci che vanno a irrigare i campi, fai rigurgitare per la campagna tutte le ricchezze che essa racchiude e che rende il popolo valoroso, rendi forte l’uno come l’altro, nessuno ha tributo da pagarti né può volgersi contro di te.

È azione della tua energia tutto ciò che è generato, gli uomini indossano i loro abiti di lino come in un giorno solenne per prendere ciò che tu hai destinato perché i loro cuori sono sensibili ai doni del tuo lavoro. La notte della goccia tu fai ciò che i tuoi campi amano, messo in movimento dai libri magici che si gettano in te per chiamarti, entri con le parole, manifestandoti come chi è là in casa sua.

Tu, il desiderato che esce dall’ignoto, se sei adirato e non ci sono più pesci, allora non resta che invocare l’acqua annuale con preghiere e pure fiamme. Se neanche gli uccelli palustri discendono al suolo, ogni uomo dalla Tebaide e dal Delta è chiamato ai lavori forzati con i suoi attrezzi, nessuno resta dietro ai suoi compagni.

La grande Enneade esce, la maestà dell’acqua primordiale Nu è in pace, non si sentono canti di letizia, tutti offrono primizie e animali, pennuti immolati e gazzelle catturate sui monti o leoni nel deserto, ma se alcuno crede che con le mani si possa tessere l’oro o plasmare terraglie d’argento, non ci si potrà cibare di lapislazzuli carne degli dei. Non dire menzogne per ciò che avrai risposto ma rispondi con l’inondazione, benefico efflusso per ogni vivente che tutti gli dei adorano.

Per te con l’arpa si intonano canti battendo le mani, giovani uomini e bambini acclamanti. Se l’augusto Hapy arriva con le sue ricchezze davanti alle città affamate, possessori di beni eccellenti si precipitano al seguito dei poveri, tutti si precipitano a bere. Tu abbellisci la terra e fai prosperare le barche.



Inno al Nilo (adattamento di Enrica Martinengo dall’edizione critica di Gaston Maspéro, Il Cairo 1912)